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sorpresa.
«Jeremy», disse alla fine, «voglio dirti una cosa. Quan-do sono scesa dall'aereo ieri a Los Angeles, il
primo giornale che ho preso aveva la mia foto in prima pagina e la notizia che mamma stava in ospedale.
Pensai: questa volta cosa sarà, pillole, una pistola, lamette da barba? Corsi al telefono, Jeremy. Corsi.
Persino prima di tentare di chiamare te, chiamai mamma. Chiamai Sally Tracy, l'agente di mamma, e le
chiesi di chiamare l'ospedale, per collegarmi telefonica-mente direttamente col letto di mamma. E dissi:
"Mamma, sono Belinda, sono viva, mamma, e sto bene". Sai cosa disse, Jeremy? Disse: "Non sei mia
figlia" e riattaccò. Lei sapeva che ero io, Jeremy. Lo so. Sapeva. E quando il mattino successivo è stata
dimessa, ha detto ai reporter che credeva che sua figlia fosse morta».
Nessuno disse una parola. Allora Susan emise un suono lungo e basso, una specie di sospiro di disgusto.
Blair si fece una risatina ironica, e G.G. semplicemente sorrise un po' amaro e guardò me e Belinda.
Eravamo fuori da Oakland, ora. Andavamo a nord, attraversando le belle colline della contea di Contra
Costa, che si srotolavano sotto un cielo scuro e nuvoloso.
G.G. si piegò e baciò Belinda. «Ti voglio bene, bambina mia», sussurrò.
«Vuoi aprire una di quelle bottiglie, G.G.?», disse Blair.
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«Immediatamente. Tu, Jeremy, reggi qui il bicchiere per me», disse tirando la bottiglia fuori dal
sacchetto. «Penso che questo volo richieda un po' di champagne».
9.
Erano le sei di mattina quando scivolammo dentro Reno, e tutti eravamo addormentati o ubriachi da
tempo, tranne Susan, che non era né l'una né l'altra cosa. Lei semplicemente continuava a spingere
sull'acceleratore e a cantare la musica leggera della radio.
Allora Blair ci depositò all'MGM Grand, in un apparta-mento con due camere da letto che avevano i
muri ben colorati, cosicché avrebbe potuto farci lo stesso le foto dopo che Belinda si fosse lavata via la
tintura dai capelli.
G.G. andò ad aiutarla a farsi lo shampoo, e Blair cominciò a sistemare la sua macchina fotografica
Hasselblad sul treppiedi e a stendere lenzuola sulle cose in modo da ottenere la luce giusta.
Belinda si dovette lavare i capelli cinque volte per togliere via tutto il castano scuro, dopo di che G.G.
glieli asciugò e pettinò con molto garbo. Finalmente scattammo il primo rullino di pellicola contro uno
sfondo scuro perfetto, con Belinda e me tutt'e due in lunghe pellicce bianche di visone.
Mi sentivo assolutamente ridicolo, ma Blair mi assicurò che stare là semplicemente in piedi, sembrare
esausto, con la faccia bianca e leggermente annoiato mi dava un'aria pro-prio raffinata. Due volte chiamò
Eric Arlington, l'uomo che aveva scattato quasi tutte le foto di Visone Midnight, a casa sua a Montauk
per avere dei consigli. Poi si buttò a capofitto nell'impresa da solo.
Nel frattempo Susan telefonava a Houston a suo padre, che le assicurò che il suo jet Lear era in viaggio.
Era, suo padre, un avvocato di grido sia a Las Vegas che a Reno, e al suo pilota toccava fare spesso la
spola. L'aereo doveva atterrare all'aeroporto di Reno da un momento all'altro.
G.G. allora chiamò Alex a Los Angeles. Alex era rima-sto a casa mia a San Francisco fino a che Dan
non gli aveva assicurato che la polizia non era più in fase di "inseguimento caldo", e che evidentemente
avevamo lasciato San Francisco senza contrattempi. Solo allora aveva preso l'aereo per tornare a casa.
Avevano spiccato a mio carico un mandato di cattura, e perciò ci dovevamo sposare subito, disse Alex,
e allora perché non andare tutti a casa sua giù al Sud?
Quando mi fu detto del mandato, fui d'accordo con lui. Usciamo da questa camera e sposiamoci
immediatamente.
Lo sposalizio fu una cosa buffa.
La cappella aperta ventiquattro ore su ventiquattro era gestita da una piccola attraente donna e da suo
marito. Questi due non avevano mai sentito parlare di noi, sebbene stessimo sulle prime pagine dei
giornali proprio giù alla strada. L'attraente signora pensava poi che G.G. era troppo giovane per essere il
padre di Belinda. Ma G.G. cacciò fuori il certificato. E allora signora e marito si precipitarono a celebrare
lo sposalizio con musica d'organo e fiori in meno di venti minuti. Il tempo di entrare e uscire dalla
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cappella.
Ma la donnetta e il suo gentile consorte ci riservarono una sorpresa. Ci avrebbero venduto un grazioso
album di foto polaroid della cerimonia. Per soli novanta dollari in più, ce l'avrebbero filmata con la
videocamera. Potevamo comprare quante videocassette volevamo noi. Ne ordinam-mo dieci.
Così, mentre Blair scattava altre foto con la Hasselblad, Belinda e io, in visone bianco tirato su fino ai
lobi delle orecchie, pronunciavano le formule del rito mentre la teleca-mera ci riprendeva.
Quando però venne il momento di scambiarci le pro-messe, fu come se ci fossimo solo io e lei. La
piccola cappella si dissolse, Blair e Susan si dissolsero: finanche G.G. si dissolse. La brutte luci artificiali
si dissolsero. Non c'era più l'omino a leggerci la Bibbia, né la donnina a sorriderci da dietro alla sua
polaroid che macinava e sputava fuori le foto.
In quel momento c'eravamo solo Belinda e io, e stava-mo insieme nel modo in cui lo eravamo stati in
soffitta a Carmel, col sole che dardeggiava attraverso il lucernario, e a New Orleans, con la pioggia
d'estate che entrava attraverso le portefinestre mentre noi giacevamo nel letto della mam-ma. Persino
l'abbigliamento donava una deliziosa luminosità ai suoi occhi, una nettezza alla sua espressione vagamente
tragica. E c'era, dopo la separazione, la violenza e le incom-prensioni, anche un po' di tristezza, che però
dava dolcezza e languore a quel momento e mescolava la felicità col dolore.
Quando venne il momento del bacio, ci guardammo in silenzio. I capelli fluivano giù sulla bianca pelliccia,
e il suo viso era privo di trucco e indescrivibilmente attraente, e le sue ciglia erano d'oro come i suoi
capelli.
«Santa Comunione, Jeremy», sussurrò. E allora io dis-si: «Santa Comunione, Belinda». E quando lei
chiuse gli occhi e vidi le sue labbra aperte e sentii che si alzava in pun-ta di piedi per baciarmi, la presi tra
le braccia, stringendola forte, e il mondo scomparve. Semplicemente scomparve.
Era fatta. Ora lei era Belinda Walker, e noi eravamo Belinda e Jeremy Walker. E nessuno avrebbe
potuto allonta-narla da me.
Allora vidi G.G. che piangeva. Finanche Blair era commosso. Solo Susan sorrideva, ed era un bellissimo
sorriso di complicità.
«Be', basta così!», disse all'improvviso. «Ora però, fuori da questo posto. A tutti voi fa comodo una
regista, non è così? E questa regista sta morendo di fame».
Mentre ci copiavano le videocassette, facemmo una meravigliosa colazione con uova e pancetta in un
grande, splendido ristorante americano. Dopo raggiungemmo l'uffi-cio del National Courier e spedimmo
le videocassette a tre reti televisive di Los Angeles e alle TV private di New York, San Francisco e Los
Angeles. Belinda spedì una videocasset-ta a casa di Bonnie a Beverly Hills e un'altra alla segretaria
personale di suo zio Daryl a Dallas. Spedimmo anche le foto polaroid ai giornali di quelle tre città. Per
conto mio inviai una copia del filmato, assieme a una foto polaroid, al tenen-te Connery a San Francisco,
con la breve nota che mi dispia-ceva di averlo disturbato e che pensavo fosse un buon uomo.
Queste cose sarebbero arrivate a destinazione nel giro di poche ore. Perciò non ci restava molto altro da
fare.
Prendemmo una bottiglia di Dom Pérignon e tornam-mo all'MGM Grand.
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